In questi giorni mi è capitato di leggere un’intervista allo Psichiatra Eugenio Borgna sull’Espresso. Tema dell’intervista il nuovo DSM-V.
Considerato l’approccio filosofico di Borgna (egli è un noto esponente della psichiatria fenomenologica, un approccio alla psichiatria che contiene in sè una forte contrapposizione verso la psichiatria organicistica e la negazione di una base strettamente e univocamente biologica dei fenomeni psicopatologici) si potrebbe contestare come semplice critica ideologica la visione esposta dallo Psichiatra, ma personalmente non posso che convenire con Borgna quando alla domanda Non è utile avere degli schemi che spieghino come riconoscere una malattia? egli risponde:
Ciò che viene criticato è quell’atteggiamento che tende così a classificare come patologica ogni forma di dolore, di sofferenza, di spaesamento e paura che proviamo di fronte ad alcuni problemi della vita quotidiana. Con le parole di Borgna:
«Penso a tutte quelle descrizioni che sembrano suggerire l’idea per la quale ogni ostacolo ci impedisca di corrispondere a una vita che scorra senza problemi, senza cadute, senza dolore, senza tristezze, dev’essere etichettato come patologico»
Ma ancor più interessante trovo la risposta data a questa intervista dal Dott.
Partendo dall’affermazione con la quale il Dott. Biondi dichiara «Sono il primo a riconoscere una dimensione profonda e quasi romantica della psichiatria», e sorridendo per quell’uso del termine Romantico che tanto mi suona come quel tentativo di “Assecondare sempre il malato di mente perchè tanto non sa quello che dice”, il primo dubbio arriva quando leggo questa prima affermazione:
La scienza psichiatrica come altre della medicina, così come la psicologia clinica, hanno necessità anche di diagnosi per confrontare la sofferenza tra paesi e regioni..
Peccato che questo nobile tentativo altro non nasconda che un appiattimento delle differenze non solo individuali ma culturali, una sorta di tentativo che esagerando definirei colonialista e che attraverso non solo l’annullamento dell’idea di sofferenza ma una negazione della sua differenza a seconda del luogo in cui si esprime, tende a considerare come simile una Depressione così come una Attacco d’Ansia così come un Disturbo Alimentare a prescindere dalla cultura in cui esso si manifesta.
Sembra volersi affermare l’idea di una sola ed unica cultura che costituisce l’esempio ed il termine di paragone per lo studio della salute mentale, tralasciando ed eliminando tutto quanto ci ha insegnato e ci sta insegnando la psichiatria transculturale. Un esempio diretto di tale appiattimento e dell’annullamento della dimensione culturale nella diagnosi psichiatrica comporta un annullamento della possibilità di comprendere ed intervenire nel disagio degli stranieri quando, al contrario, una certa curiosità ci permetterebbe un incontro con la diversità ma soprattutto una sua comprensione (questo per relegare l’esempio al solo campo psichiatrico e della pratica clinica, senza considerare l’importanza del fattore culturale nell’integrazione scolastica).
Più onesta mi sembra l’affermazione secondo la quale Biondi afferma :
Sono anche il primo a sottolineare che occorre avere senso pratico per aiutare le persone….. I cittadini, le associazioni di pazienti e familiari chiedono il riscontro di una diagnosi per avere un riconoscimento di stati di sofferenza, poter accedere a cure e programmi sanitari, avere rimborsi assicurativi, avere riconosciuta un’infermità per il lavoro o la pensione, stabilire la capacità di disporre una volontà o decidere nella procedura di consenso informato o in ambito forense.
Appare qui evidente non solo l’aspetto utilitaristico di un manuale come il DSM, ma il cosidetto reale uso di uno strumento costituito unicamente da «liste di sintomi per uso statistico ed epidemiologico», e che all’interno di questi campi dovrebbe e potrebbe dare il suo contributo.
Se non fosse che anche dietro questo aspetto si nascondono numerose ombre, che vengono svelate ad esempio dal Dott. Allen Frances, uno dei supervisori della task force per la stesura del precedente DSM-IV che in un’intervista afferma:
E qui sorgono altri 2 problemi:
– Il primo è quello dell’intervento delle case farmaceutiche nella stesura del DSM-V. Alcuni studi hanno evidenziato una documentata connessione finanziaria tra gli esperti incaricati alla supervisione del manuale ed alcune industrie farmaceutiche o di attrezzature mediche (L’analisi è basata sulle informazioni finanziarie pubblicate sul sito Web dell’APA).
– il secondo è evidenziato dalle parole dello stesso Biondi che afferma «Il DSM5 come l’ICD-10 sono liste di sintomi per uso statistico ed epidemiologico. Non sostituiscono la visita, il colloquio, il rapporto. È sbagliato come è descritto nell’articolo l’impiego del DSM5: la diagnosi non si fa guardando le liste di sintomi. È la prima cosa che insegniamo nei corsi di laurea» e qui sì che devo riconoscere una visione idealizzata e romantica al Dott. Biondi, perchè se anche fosse vera questa sua affermazione, sappiamo anche che, come evidenziato dal Dott. Allen Frances nelle parole prima riportate
L’80% dei farmaci prescritti per pazienti psichiatrici è prescritto da medici non psichiatri, solitamente in 7 minuti.
Si noti a tal proposito l’impennata di prescrizioni mediche per farmaci inerenti la sfera del disagio psicologico da parte dei medici di base, giustificata solo e soltanto dalla presenza di una descrizione nosografica in un manuale.
Nè basta segnalare come fa il Dott. Biondi che “Le stesse critiche che alcuni fanno al DSM-5, manuale messo a punto dall’American Psychiatric Association possono essere fatte anche alla Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD)dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) dato che i due sono per gran parte sovrapponibili e hanno addirittura commissioni che ne stabiliscono comune codifica”.
Non è una gara al manuale corretto, non è una gara all’autore migliore, ma ciò che si critica, e preferisco ripetermi, è una impostazione ed una visione totalizzante e totalitaria della psichiatria, quella visione che sta portando sempre più ad un impoverimento dei significati della vita e la tendenza ad una “medicalizzazione” dei sentimenti quotidiani e di tutta quella serie di segnali che per quanto indicatori di disagio e sofferenza esprimono un significato ed uno sforzo di adattamento alla vita (ad esempio si veda il libro di Horwitz & Wakefield (2007) The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorders, la cui traduzione illuminante del titolo è “La perdita della tristezza. Come la psichiatria ha trasformato il normale dolore in un disturbo depressivo”).
Finora ho esposto solo i pericoli che personalmente trovo nella diagnosi psichiatrica, ma il titolo del post fa riferimento anche all’Importanza della diagnosi nel lavoro psicoterapeutico. Sì la diagnosi è importante è utile nella pratica clinica, ma quand’è che lo è?
La diagnosi, anche quella psichiatrica, è utile ed importantissima quando permette di ampliare la nostra visione e la nostra conoscenza sul disagio psichico e dà utili consigli e direttive sul percorso clinico da intraprendere nel momento in cui si decide di affrontare il disagio psichico.
Trovo in tal senso illuminante il libro “Il Vaso di Pandora: Manuale di Psichiatria e Psicopatologia” scritto a 4 mani dal Dott. Luigi Cancrini e dalla Dott.ssa Cecilia La Rosa. Basterebbe anche solo la lettura del primo capitolo di questo testo per comprendere l’utilità e l’importanza di un certo modo di avvicinarsi alla malattia mentale.
Come ci riportano gli autori
Stiamo parlando della fine del 1700, e già allora si andava quindi affermando un concetto che lo stesso Freud più tardi esporrà, quello del Sintomo come Comunicazione. E qui ancora gli autori sottolineano, parlando di Freud, come “La conclusione cui egli arrivò è che il sintomo è un messaggio in codice decifrabile nel corso dell’analisi, …. escludendo tassativamente, dunque, che esso fosse la manifestazione diretta, all’esterno, di un fatto che si produce a livello del sistema nervoso. Importante per capire il sintomo non era per lui, dunque, l’identificazione delle cause che provocano la malattia (di cui esso non è il segno), ma la ricostruzione nella storia della persona delle sequenze di eventi chepermettono dui comprenderne l’origine e il significato”.
Il Sintomo, i sintomi, anche un loro elenco possono quindi essere utili ad identificare un disagio, ma trovano un senso ed una importanza solo quando ci spingono a farci ulteriori domande, quando stimolano curiosità ed interesse, e ci avvicinano alla persona che ne è portatore piuttosto che relegare l’uomo e la sua sofferenza al di la della nostra scrivania, motivo per cui non ne uso una nella mia attività clinica.
Del resto si potrebbe obiettare cheun uso scorretto del DSM-V non è imputabile agli autori, ma l’impennata di descrizioni nosografiche e il cambiamento di alcune è si imputabile agli autori e ad un certo modo di fare psichiatria e di intendere il disagio psichico, una visione che elimina ogni aspetto umano e impoverisce l’importanza del rapporto, base fondamentale della Psicoterapia.
Per Approfondimenti e per consultare il testo integrale delle interviste citate:
– Giù le mani dalla psiche: Ecco perché il Dsm-5 sbaglia
– Intervista ad Allen Frances: Inflazione diagnostica e rischi del DSM5
– Il DSM-5. Una tigre di carta
Bibliografia:
– Il Vaso di Pandora – L. Cancrini – C. la Rosa (2001)
– La diagnosi in psichiatria. Ripensare il DSM-5 – A. Frances (2014) potete trovarlo su IBS o presso Feltrinelli
– Primo, non curare chi è normale. Contro l’invenzione delle malattie – A. Frances (2013) potete trovarlo su IBS o presso Feltrinelli
– The Loss of Sadness. How Psychiatry Transformed Normal Sorrow into Depressive Disorders – Horwitz & Wakefield (2012)